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Pittore

Guido Cadorin


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Guido Cadorin

( Venezia 1892 - 1976 )

Pittore

    Guido Cadorin

    Figlio e fratello di scultori, allievo prediletto del pittore Cesare Laurenti, il veneziano Guido Cadorin esordì all’arte, appena diciannovenne, nella grandiosa esposizione internazionale che si tenne a Roma nel 1911. Egli vi seppe richiamare su di sè l’interesse della giuria di accettazione, le simpatie del pubblico dei visitatori e il plauso della critica dei grandi giornali con tre quadri, Vecchia cugina, Ritratto di mia madre, L’offerta, i quali dovettero principalmente il loro successo al gentile e mite sentimento familiare che li aveva ispirati e all’ingenua spontanea schiettezza con cui vi erano tratteggiati, pur non senza qualche incertezza formale, alcuni caratteristici tipi femminili della piccola borghesia veneziana.

    Le tele esposte dal Cadorin, negli anni susseguenti, a Roma e a Venezia, a Torino e a Milano, a Firenze e in qualche città dell’America Settentrionale, sebbene si presentassero, nella varietà dei soggetti, di merito abbastanza diverso l’una dall’altra, valsero pero, prese nel complesso, ad attestare che non immeritata era stata la fiducia di coloro che, fino dai primi passi da lui fatti a Roma nella carriera delle arti belle, avevano bene sperato del suo avvenire, classificandolo senza esitazione nel piccolo ed eletto gruppo di quei giovani che rivelano una precoce e oltremodo lodevole preoccupazione, più o meno cosciente e volontaria che essa sia, di far dire alle proprie opere qualche parola nuova o almeno di fargliela pronunciare in maniera alquanto differente di come era stata detta prima di loro.

    Due fra i suoi quadri più recenti sono riusciti ad ottenere in special modo il suffragio del pubblico e della critica. L’uno, intitolato Le tabacchine, di gioconda piacevolezza popolaresca, fu esposto a Venezia nel 1920 e venne acquistato da S. M. il Re d’Italia, mentre l’altro Ritratto di mio padre, di sobria colorazione, di robusto e sicuro disegno e di grande efficacia espressiva, figurò anche a Venezia, ma nel 1922.

    Nella medesima Biennale veneziana, oltre che da questo pregevolissimo ritratto maschile e da una assai leggiadra fontana, decorata da graffiti e mosaici, il Cadorin era rappresentato non meno degnamente da una Deposizione della Croce, di nobile ed equilibrata composizione e dipinta a buon fresco con non comune perizia tecnica.

    Essa persuasivamente spiegava e giustificava il secondo premio da lui ottenuto nel 1921 nell’importante concorso per la decorazione dell’interno della chiesa di San Francesco a Ravenna e anche un po’ – specie per la rispettosa ma non pedissequa fedeltà alle buone tradizioni dell’antica arte sacra italiana – un altro e non meno meritato secondo premio, ottenuto, l’anno precedente, in qualità di silografo, in un concorso, indetto e spesato da Ugo Ojetti, per due tavole di una Via Crucis da incidersi su legno.

    Non è, però, come pittore che, salvo in un delicato ed elegante ritratto di fanciulla, Guido Cadorin intende, oggi presentarsi, nella Galleria Pesaro, al Pubblico milanese, ma come agile garbato ed accorto cultore di quelle che, malgrado tante proteste e recriminazioni, continuasi tuttora a chiamare arti minori.

    E’ quindi principalmente tale aspetto del suo versatile talento che io voglio far conoscere e mettere bene in luce nelle poche pagine del presente opuscoletto. * * * Seguendo le sagaci esortazioni e anche l’esperto esempio del suo buon maestro Cesare Laurenti, il Cadorin si applicò, con particolare cura e con vivo amore, allo studio minuzioso, attento e fin troppo trascurato in Italia ai giorni nostri, non soltanto delle tecniche antiche e moderne della pittura ad olio e a tempera, a buon fresco e ad encausto, ad acquarello ed a pastello, ma eziando dei molteplici processi, usati nei secoli scorsi a Venezia per la vaghissima e fastosa famiglia degli oggetti d’arte applicata.

    Ciò lo indusse, più di una volta, fra un quadro ed un altro e nella forma modesta concessagli da limitati mezzi pecuniari, a provarsi nella creazione di qualche opera d’arte industriale, mobile in lacca o piatto in metallo sbalzato, tela stampata a colori o lampada in seta. La fortuna doveva eccezionalmente assisterlo su questa via, ché presto gli si presentava l’occasione, davvero lusinghiera ed oltremodo incoraggiante, di poter dare prova, con opulenza e su larga scala, delle personali sue attitudini ad arredare e decorare ambienti moderni.

    Tre anni fa, il Conte Nicolò Papadopoli – uno di quegli uomini che altamente onorano il patriziato veneto la cui recente scomparsa è stata rimpianta a Venezia da tute le classi sociali -, dovendo sostituire con una nuova villa quella che durante la guerra era stata in gran parte distrutta, a San Polo sul Piave, dall’impeto falcidiante delle opposte artiglierie, ne comprò un’altra, nelle vicinanze di Vittorio Veneto, assai attraente pei giardini che la circondano e per l’ampia e pittoresca veduta di arborate campagne che dall’alto vi si scorge.

    Appartenente già alla famiglia Sormani-Moretti, essa presentava molti dei caratteri, se non proprio tutti e dei peggiori, tanto nella parte architettonica quanto nella decorazione interna, di quello stile bastardo pretenzioso e antipatico che imperversò, nel Veneto e in qualche regione della Lombardia, intorno al 1870. Lasciare la villa così come era, il Conte Niccolò Papadopoli, persona di sicuro ed intelligente gusto artistico, non voleva a nessun costo e d’altronde il farla demolire sia anche in parte e poi farla ricostruire ex nuovo, avrebbe richiesto, coi prezzi attualmente raggiunti dalle materie prime e dalla mano d’opera, troppo tempo e troppo denaro.

    Il meglio ancora era di limitarsi a un esterno rimaneggiamento architettonico e a una interna e quasi completa rinnovazione dell’arredamento e della decorazione delle varie sale dell’appartamento a pianterreno e di quello al primo piano. A questo sagace e accorto proposito si attenne il Conte, ma, piuttosto che rivolgersi, come tanti e tanti dei vecchi rappresentanti dell’aristocrazia e dei nuovi arricchiti non avrebbero certo mancato di fare, a qualche laureato contraffattore e rimpasticciatore di antichi stili, coadiuvato da uno di quei disinvolti scenografi da appartamento moderno, così graditi all’ignoranza e al nativo cattivo gusto delle signore mondane e così utili agli antiquarii, di cui sanno abilmente e profittevolmente mettere a posto il plurisecolare bric-à-brac, di più che dubbia autenticità, si rivolse a due giovani artisti veneti, l’architetto Brenno del Giudice e il pittore Guido Cadorin, di ancora limitata notorietà, ma il cui merito non comune era, per varie opere di equilibrata elaborata ed elegante ricerca modernistica, già apparso evidente agli esperti cultori e intenditori d’arte, che avevano avuto agio di osservarle e di apprezzarle.

    Avvicinati non solo da legami di parentela, ma anche e sopra tutto da comunanza di aspirazioni estetiche e dall’esecuzione in comune di varii lavori, i due giovani accettarono, con viva riconoscenza e con gioia entusiastica, il lavoro affidato loro dal Conte Papadopoli. Costui, pure lasciando la massima libertà nell’ideazione e nell’esecuzione del complesso lavoro di rinnovamento della villa di Vittorio Veneto, mise, però, stante la sua tarda età, la condizione, alquanto grave sopra tutto nel critico periodo che si attraversava, che esso venisse eseguito in non più di un anno.

    La condizione, lo ripeto, era grave, ma cosa non riesce ad ottenere l’entusiasmo giovanile di due artisti, messi in puntiglio dalle medesime difficoltà materiali da superare e accesi da una esaltante gara di emulazione ? Infatti, a dieci mesi appena di distanza dell’ordinazione, questa, salvo piccoli particolari di scarsa importanza, era portata a compimento, con vivo piacere e intera soddisfazione della famiglia Papadopoli, la quale potette così installarsi comodamente e senza ulteriore ritardo nella sua villa di Vittorio Veneto. * * * Se mi sono attardato alquanto a parlare della villa Papadopoli è perché essa è la più convincente dimostrazione che, col pittore Cadorin, non ci troviamo, come più di una volta accade, di fronte ad un brillante ma pur sempre superficiale dilettante di decorazione, ma ad un serio esperto e coscienzioso arredatore e decoratore di appartamenti moderni.

    E anche perché tutto quanto il giovane pittore veneziano aveva ideato e operato, anni fa, per la decorazione interna, così vivace e varia e leggiadra, di detta villa serve a dare prova, non soltanto della sua delicata e squisita visione costruttiva ed ornamentale, ma anche del suo agile pieghevole e accorto rispetto alle leggi della praticità e della comodità, che, più che necessario, io stimo doveroso in chiunque si applichi all’esercizio delle industrie artistiche.

    Nella sala, affidatagli dalla direzione della Galleria Pesaro, noi, con grande compiacenza, ritroviamo tutte la gustose caratteristiche che già contraddistinguevano l’individuale sua ricerca decorativa nella villa di Vittorio Veneto, con in più la cosciente sicurezza e la disinvolta sveltezza che procurano tre anni di sempre più elaborata e matura esperienza nel concepire le foggie degli oggetti e nell’eseguirne la veste ornamentale.

    Tanto nell’una come nell’altra, evidente appare il suo proposito di richiamare le simpatie sulle vecchie e gloriose industrie artistiche di pretta tradizione veneta, non escluse quelle cadute in disuso o a torto trascurate. E ciò è fatto ognora con sicuro buon gusto di linee e di tinte, riuscendo egli spesso ad abilmente e gradevolmente ringiovanirle, mercè nuove sagome, nuovi arabeschi e nuovi accordi cromatici. Così, accanto ai lussuosi tessuti policromi in seta a soprarizzo, troviamo gli aristocratici mobili in lacca, di una tecnica alquanto diversa da quella famosa in Cina e in Giappone, e, accanto ai sottili vetri soffiati di Murano, troviamo, con differente ma sempre viva letizia degli occhi, le fiorite o figurate maioliche di carattere popolaresco e i non meno popolareschi piatti di massiccio ottone sbalzato, i quali, prima di servire di grazioso e luccicante adornamento alle pareti dei tinelli d’oggigiorno, servirono, più semplicemente ma anche più praticamente, ad accogliere le fritole inzuccherate, gioia degli infantili palati veneziani.

    Tributati gli encomii più fervidi e schietti al valente rievocatore e insieme ringiovanitore di tante attraenti manifestazioni d’arte industriale parmi doveroso aggiungere, elencandone i nomi, una parola di lode pegli attenti e peritissimi artefici che hanno eseguiti i progetti del Cadorin. Ricorderò quindi Lorenzo Rubelli per le stoffe a soprarizzo; Pietro Michieli pei mobili in lacca liscia nera o turchina e Pasquale Zennaro per quelli in lacca con rilievi in gesso e decorazione variopinta; i fratelli Toso pei vetri soffiati; Adriano Benedettelli e Giacomo Dolcetti per le maioliche e infine Antonio Gardin pei metalli sbalzati.

    Un altro merito grande del Cadorin è di aver saputo radunare e avere saputo giovarsi con spiccato senso ed esatti criterii d’arte di una così varia e sapiente maestranza tecnica, mentre essa è per solito lasciata a servire l’opera grossolana o controfattrice di mestieranti, a meno che, invece di mantenersi nella propria modesta ma pur tanto utile e opportuna sfera di esecutori o anche d’interpreti tecnici, questi non s’impanchino vanitosamente a maestri e a creatori, con risultati quasi sempre assai miserevoli.

    Troppi sono i quadri e troppe sono le statue che si eseguono attualmente in Italia, sotto l’incessante tentazione delle sempre più frequenti mostre d’arte, e non è punto da sorprendersi che nel maggiore numero dei casi, vi manchino la necessaria maturità della concezione e la non meno necessaria elaborazione paziente e scrupolosa della forma.

    Riuscirebbe quindi, almeno a parer mio, di non poco vantaggio alla salute complessiva dell’odierna arte italiana se parecchi fra i nostri giovani pittori e scultori, seguendo l’esempio che dà loro Guido Cadorin, si decidessero una buona volta a consacrare una parte della loro attività cerebrale e manuale al tanto auspicato risveglio delle industrie artistiche del nostro paese, rendendone a poco per volta di qualità più scelta ed originale la produzione, ridotta, salvo rare e tanto più lodevoli eccezioni, a così mal partito non so se più per colpa dei bigotti della tradizione o dei fanatici di un mal compreso modernismo ad ogni costo.

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